
Hugo Cabret è un film da non far mancare ai nostri preadolescenti, drogati di realtà virtuale, animazioni digitali e visioni 3D. Un’operazione colossale del maestro Martin Scorsese, il quale , alle soglie dei 70 anni ha riversato la sua straordinaria capacità narrativa in una pellicola dal respiro epico, servendosi delle tecnologie più avanzate, ma senza dipendere da esse.
Il protagonista è un ragazzino che ha avuto in sorte di poter osservare il suo tempo – gli anni tra le due guerre – da un punto di vista assolutamente privilegiato. Non solo perché vive nelle viscere di Gare Montparnasse, la storica stazione ferroviaria di Parigi, tra corridoi di servizio, prese d’aria e passerelle sospese a decine di metri d’altezza, su un’umanità brulicante di vita e speranze, ma soprattutto, perché nell’era delle invenzioni meccaniche egli si trova a custodire un sapere che sarà alla base dello sviluppo tecnologico di quel primo scorcio di secolo. Hugo è, infatti, figlio di un orologiaio e nella Gare Montparnasse, continua il lavoro dello zio che manuteneva i tanti e complessi orologi della stazione. Qui il primo piano di lettura del film che si esplica in un dialogo tra Hugo e la romantica Isabelle: a guardarlo con attenzione il mondo è evidentemente un meccanismo perfetto, in cui gli ingranaggi sono esattamente quanti devono essere, neppure uno in più, quindi ciascuno di noi ha il suo posto e il suo compito insostituibile nel grande orologio, si tratta solo di trovarlo. Ed è per questo che l’idea di lasciare che un oggetto o una persona che si siano inceppati, rimangano rotti e non funzionino è assolutamente insopportabile.
Ora ad essersi rotto è un automa in cui si sintetizza l’ estetica e la cura meticolosa per il dettaglio tipici dell’art nouveau. Il metallo in quegli anni veniva usato per dare un aspetto nuovo alle città europee. E sempre il metallo veniva plasmato per costruire macchine che moltiplicavano la forza dell’uomo, ne decuplicavano la velocità per mare e per terra e addirittura gli consentivano per la prima volta di vincere la forza di gravità e di volare. Il metallo di cui è fatto l’automa, ma anche gran parte dell’architettura della stazione e i treni e molte strutture che arredano gli interni e gli esterni della città costituisce l’elemento visivo dominante, come se lo scheletro del tempo premesse per emergere da sotto una pelle sottilissima. Tutto brilla come gli ottoni di una nave, creando un’atmosfera magica. Eppure non c’è trucco. Nessun ritocco di computer grafica. Solo cinema…
E arriviamo all’altro tema del film, che nella seconda parte assume chiaramente il ruolo predominante: la nascita del cinema.
Ricerca tecnologica affannosa volta a costruire macchine che consentano agli uomini di superare i propri limiti, abbiamo detto, ma anche di fare qualcosa che gli uomini tramite il teatro, la musica, la letteratura hanno in realtà sempre fatto: raccontare i propri sogni. Si scoprirà verso la fine del film che l’automa fa proprio questo: disegna i sogni. È un po’ l’allegoria del cinema stesso: strumento perfetto per raccontare i sogni.
In questi termini se ne innamorò George Milies, il giorno in cui vide per la prima volta l’invenzione dei fratelli Lumiere. Egli, primo cineasta della storia e padre di invenzioni straordinarie per la cinematografia (dal montaggio all’esposizione multipla, alla dissolvenza, al colore dipinto a mano direttamente sulla pellicola) non è nient’altri che il costruttore dell’automa e lo zio di Isabelle.
Ricordando la sua storia, Scorsese vuole dunque fare un omaggio al cinema nella sua essenza originaria di strumento per raccontare i sogni e lo fa dimostrando che il valore di un film risiede non negli effetti speciali, ma nel racconto.
Nonostante parecchi long take siano pensati proprio per il 3D, infatti, il coinvolgimento dello spettatore non è strettamente legato al fatto che gli oggetti diano l’impressione di schizzar fuori dallo schermo. Un treno si catapulta giù dal piano alto della stazione, dopo aver mandato in frantumi la splendida vetrata che ne decorava la facciata e dopo aver falciato una folla urlante della quale fai praticamente parte anche tu. Eppure il pregio di questa scena mozzafiato non consiste nella sua spettacolarità, ma nell’essere una citazione adrenalinica di un fatto realmente accaduto, nel 1885, e insieme dello storico filmato col quale i fratelli Lumiere presentarono la loro invenzione, il cinematografo, a un pubblico di ignari parigini, che si scansarono urlando per paura di essere travolti. Questo episodio viene letto, poi immaginato e infine rivissuto nel ricordo di uno dei protagonisti. Il gioco di Scorsese si svela forse qui, più che altrove, perché dopo aver indotto lo smaliziato spettatore del terzo millennio a guardare con paternalistica compassione all’ingenua reazione di quei primi cinespettatori, il regista porta a compimento la sua vendetta e ci mette nella condizione di provare lo stesso smarrimento dinanzi a un “nuovo trucco”, allineato con le possibilità tecnologiche del nostro tempo.