edito da San Paolo
Stiamo parlando del libro premiato dalla giuria di esperti di Liber come miglior prodotto editoriale per ragazzi del 2011. Per chi non fosse del mestiere, spieghiamo che il lavoro di Liber e del suo annuale rapporto sull’editoria per ragazzi è prezioso e intelligente proprio perchè raccoglie e accosta giudizi reali provenienti sia dal mondo dei critici accreditati, che da quello dei fruitori, ovvero i ragazzi. Quindi in fine noi abbiamo tre classifiche quella dei libri più venduti, quella dei libri più prestati (che costituiscono insieme i libri più letti) e quella dei libri considerati più belli dai critici. Il che dà un quadro preciso della situazione. Ora la divergenza tra questi due mondi appare evidente e ovviamente suscita domande e, sempre tra coloro che dovrebbero essere gli opinion makers, ma si scoprono ben poco efficaci in questa loro missione, dibattiti su dibattiti. A Bologna, in occasione della Fiera del Libro per ragazzi, come abbiamo già riportato, ha avuto luogo uno di questi confronti verbali. Protagoniste le più note firme della stampa di settore. Condivisibilissima (tra le tante riflessioni significative) la preoccupazione per un panorama editoriale che fatica a esprimere racconti di livello per la fascia 8-12 anni. La tendenza, ci è sembrato di cogliere, però, è che se ne faccia un problema di stile. Pare sia difficile trovare autori capaci di usare un registro linguistito tarato sulle capacità dei lettori degli ultimi anni di scuola elementare e dei primi anni delle medie. Gli esperti, i promotori della lettura di qualità, sembra guardino con speranza ai pur sparuti tentativi di affrontare da parte di taluni coraggiosi scrittori “temi sociali” attuali, filtrandoli con perizia letteraria. Ancora gli esperti, dopo essersi domandati se il loro ostinato sforzo di spingere i ragazzi su territori impegnativi (certo più impervi di Geronimo Stilton!) sia vano (qui ci permettiamo di esortarli a perseverare!), dicevo, gli esperti concordavano sul fatto che scegliere il miglio libro del 2011 era stata cosa semplicissima, proprio per il divario tra i pochi prodotti di buona qualità e il resto del mondo. Alloro, quindi, a The Frozen Boy, in modo quasi automatico.
A nostro avviso, però The frozen boy non ha nulla del romanzo per ragazzi.
E’ un buon libro. Costruito secondo la miglior tradizione novellistica. Ben dosata la narrazione, i flash back, i dialoghi e le descrizioni, puntuali, asciutte, efficaci. Lo stile è scorrevole, ben ritmato e sufficientemente ricco in quanto a lessico e immagini (anche se ad un certo punto si ha la sensazione che con le metafore contenute in un capitolo ci si potrebbero riempire due romanzi brevi!). Qualche appunto si può fare alla verisimiglianza di talute trovate dell’intreccio, come il fatto che il protagonista attraversi mezza America guidando, dopo aver imparato a farlo osservando per un’oretta il conducente dal sedile poteriore e forse al clima emotivo generale, che raramente riesce a scaldare il cuore e commuovere in profondità.
Il punto, in ogni caso, è che Sgardoli qui non narra affatto la storia di un ragazzo, nè una storia vista dal punto di vista di un ragazzo, nè una storia che possa in qualche modo incidere o ispirare un ragazzo. Parla di un adulto, che vive un dramma degno di rispetto, sia ben chiaro. Un adulto che non ha risolto la propria vocazione di padre, ha trascurato il figlio e lo ha perso a causa della guerra prima di poter recuperare il tempo perduto. Un personaggio che ha contribuito con i propri studi alla realizzazione delle bombe di Hiroshima e Nagasachi, peccando potremmo dire di tracotanza (la nefasta ubris deigli antichi greci!). Imbattersi in un ragazzino che per 100 anni è rimasto congelato nei ghiacci della Groenlandia e assumersi il compito pietoso di sottrarlo a un destino di cavia nelle grinfie degli scienziati del governo sarà per lui la “seconda occasione”. Di fatto, si tratta di un incontro che lo trova privo di quelle barriere psicologiche che gli avevano impedito in precedenza di essere ciò che avrebbe dovuto essere, ovvero un padre, con suo figlio. Un incontro al quale l’uomo reagisce umanamente, scoprendosi capace di adempiere a una responsabilità educativa: sostiene e dà speranza a quella fragile creatura, conducendola quasi per mano al compimento del suo destino che con un secolo di ritardo è in fondo al mare, accanto alla sua famiglia. Possiamo accettare che tanto basti a ridare al protagonista un minimo di fiducia in se stesso, ma non riusciamo a capire come tutto ciò potrebbe riguardare un ragazzino di 10 o 12 anni.
E quindi la domanda è ancora sempre quella: dobbiamo credere che gli adulti non sappiano più parlare ai ragazzi, se non dei propri arrovellamenti e della propria immaturità? Chi racconterà loro che siamo desiderio di bello, di bene, di avventura, di scoperta, di sorpresa e che ogni giorno della nostra vita è pieno di tutte queste cose, a patto di saperle riconoscerle?
Ancora gli esperti su questo punto non hanno dubbi: per adempiere a questo compito sono rimasti i classici. Io però non mi accontenterei…